Sono andato in dei posti
Contro molti pronostici, ecco qui la seconda uscita della mia newsletter. In giusto ritardo per non creare un’aspettativa sul giorno in cui puoi aspettarti di ricevere questa email. In colpevole ritardo per i temi che tratterò. Qui di seguito, infatti, troverai un trattato sulla settimana dell’arte torinese (che in realtà sono solo quattro giorni) che si è conclusa esattamente una settimana fa e che rappresenta uno dei momenti dell’anno che preferisco. Fare questo esercizio con una settimana di ritardo, però, mi ha aiutato a ruminare alcuni pensieri e a far sì che io possa raccontarti solo ciò che davvero si è sedimentato, togliendo il superfluo.
Qualche tendenza al borsino della settimana dell’arte: in crescita gli outfit discutibili (ho visto gente trascinarsi dietro dei cani finti), in calo (grazie) le “performance” e le “provocazioni”, restano costanti (ahimé) quelli che vanno in giro a dire “questo lo potevo fare anch’io” e le sue varianti. [È molto semplice: tutte le opere d’arte fatte da esseri umani avremmo potuto farle anche noi se ci fossimo applicati o se ci fossimo drogati come chi le ha fatte. In realtà, per ora, anche quelle generate dall’Intelligenza Artificiale avremmo potuto farle anche noi.]
Quello che mi rimane dallo scorso weekend, quindi, sono principalmente tre cose, tre esperienze nello specifico.
La catarsi della videoarte
Giovedì sera, nel primo giorno del weekend dell’arte, sono stato alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.
«Quando arrivo alla Sandretto c'è quasi tutta la Torino che conta. Tra gli habitué del giro, come Paolo Grassino o Pietra Pistoletto o Nicus Lucà, ci sono Boosta con la Lessa, Marsiaj con la Herzigova, Buffon con la Seredova, uno che non riconosco con la Bobulova, Francesco Coco con una che somiglia a Elena Santarelli ma non sono certo che sia lei, Irene Grandi con Roberto Spallacci dell'Associazione Culturale Xplosiva, Fabrizio Gargarone dell'Associazione Culturale Hiroshima Mon Amour, Murizio Cilli dell'Associazione Culturale The Beach con i soci Roberto Marucci e Samuele Rocca, Alberto Campo dell'Associazione Culturale Traffic Festival con il socio Ammendolia, Max Casacci con la sua tipa, Johnson Righeira con Isabella Santacroce, Pisti e Samuel con l'aria di voler sfuggire a cinque, no, sei ragazzine, dj Vespa con dj Samantha, il regista Davide Ferrario con la scenografa Francesca Bocca, le due stiliste del marchio Serienumerica di cui non ricordo il nome, la collezionista d'arte contemporanea Patrizia Sandretto Re Rebaudengo col marito Re Rebaudengo, e ci mancherebbe visto che sono a casa loro, l'attrice Stefania Rocca, lo scrittore Giuseppe Culicchia, Luciana Littizzetto col batterista degli Africa Unite, Tiziano Lamberti nudo che la intervista per Le Iene...»
Le virgolette e le coppie non più così attuali fanno capire che non è roba scritta da me, bensì dallo scrittore Giuseppe Culicchia che nel 2009, in Brucia la Città, raccontava come a tutti gli eventi della Torino bene a cui partecipava ci fosse sempre la stessa gente, copia-incollando lunghi elenchi di persone, sempre le stesse. Dopo un decennio circa di frequentazione assidua del weekend dell’arte, posso confermare che la situazione non sia cambiata particolarmente: cambiano le persone, ma non le tipologie umane. Torino in quei giorni sembra una città in fermento, in continua evoluzione, ma poi torna ad essere lo stesso posto di sempre nel giro di qualche ora. Forse è proprio il fatto che Torino sia così impermeabile al nuovo a renderla così affascinante.
Comunque, sto divagando: stavo parlando di Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per due motivi. Il primo è che io e Patrizia Sandretto Re Rebaudengo tutte le volte che ci vediamo ci salutiamo caramente come due vecchi amici, anche se in realtà io so chi è lei ma lei, ovviamente, non ha la minima idea di chi sia io. Che classe. Il secondo è che lì si può vedere fino al 26 febbraio “Air Pressure (A diary of the sky)” di Lawrence Abu Hamdan. Stiamo parlando di video-arte. Io sono sempre stato abbastanza scettico sulla video-arte, bollandola spesso come “film non riusciti”, ma qui ho capito qualcosa di più. La mia formazione politologica non mi può lasciare indifferente di fronte a opere di questo tipo: Abu Hamdan si è messo alla finestra di casa sua e ha filmato ciò che accade tutti i giorni sul cielo del Libano. Negli ultimi 15 anni almeno si sono registrati almeno 22.111 (ventiduemilacentoundici) voli non autorizzati di aerei militari dello stato di Israele sopra i cieli del Libano. Il motivo? Fare rumore. Lo stesso rumore della guerra. Per ricordare della propria presenza. Per intimidire. Come ci sentiremmo se tutti i giorni ci passassero sulla testa degli aerei militari francesi? Ecco.
La seconda opera di video-arte che mi ha fatto riconciliare con il mezzo è visibile alle OGR fino a metà gennaio, si tratta di RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON, di Arthur Jafa. La domanda iniziale è “come possono i media, gli oggetti, le immagini statiche e quelle in movimento trasmettere la potenza, la bellezza e l’alienazione proprie della Black music statunitense?”. La risposta di Jafa è un video di 85 minuti in cui si vedono onde di lava nere generate da un computer e musica. Detta così non sembra il massimo, in realtà è potente, avvolgente.
Il motivo per cui parlo di queste due opere sono le sensazioni: in entrambe le esperienze c’era qualcosa di magico. Non è tanto quello che è contenuto nei video, quanto il momento vissuto insieme ad altre persone, la sensazione. Un rituale. Una catarsi. Era impossibile andarsene, le persone intorno a me stavano provando le stesse emozioni, stavano cercando come me di farsi inondare dalla stessa energia. Ho fatto pace con la video arte. Ho immagazzinato cose belle.
A colazione in galleria
Sabato mattina sono andato in giro per gallerie d’arte con il mio amico Duccio: offrivano la colazione e a me piace la colazione. L’esperienza migliore me l’ha regalata la galleria Gagliardi e Domke, in cui Pietro Gagliardi (il direttore) ci ha guidati con estrema disponibilità partendo dalle opere di Fabio Viale, che fa un uso del marmo non retorico (tradotto: usa il marmo per fare un po’ il cazzo che gli pare, tipo quando ha fatto una barca di marmo, esposta oggi da Gagliardi e Domke, ci ha attaccato un motore fuoribordo e l’ha usata per farsi un giro nel Po). Per poi proseguire con Glaser Kunz: due pazzi svizzeri (marito e moglie) che inseriscono nelle loro opere dei manichini, su cui proiettano delle facce, che parlano e si muovono, ma i corpi e le teste stanno ferme. Tutto un lavoro di sguardi, di espressioni dei volti. Straniante.
Questa esperienza, invece, ci ricorda che una galleria aperta e disponibile è possibile ed è necessaria per avvicinare le persone ad un mezzo come quello dell’arte contemporanea spesso, a torto, giudicato inaccessibile. Gallerie d’arte di tutto il mondo: apritevi!
L’arte di tutti
Grandi assenti di questa settimana dell’arte sono stati gli NFT: nessuno ne parlava, se provavi a nominarli ad Artissima (quest’anno di livello altissimo, ma non ne parlerò) rischiavi il linciaggio o, alla peggio, che un gallerista dicesse “è una bolla, solo l’arte vera rimane”. Quest’anno a Torino c’è stata una manifestazione che è riuscita in un colpo solo a mettere in discussione: l’immobilismo torinese, i prezzi delle opere, l’autenticità dell’arte, la prova del possesso e molto altro. Esattamente agli antipodi sia degli NFT che del mondo dell’arte istituzionalizzato si è quindi collocata la manifestazione “Poverissima”. Un appartamento con un ampio salotto, vuoto. Sul pavimento pile di fogli di carta con opere d’arte fotocopiate. In centro alla stanza un tizio seduto per terra di fianco a una fotocopiatrice che fotocopia le opere. Ognuno poteva entrare liberamente in questa stanza, prendere ciò che voleva e andarsene.
Ho preso un paio di opere, una l’ho appesa nel mio salotto e se qualcuno un giorno mi chiederà se l’opera è originale gli risponderò come Alessandro Orlando di Telemarket: “È UN MULTIPLO! E SONO FELICE! ED È BELLISSIMA!”.
Un bel ribaltamento di fronte. Spero che l’esperimento si ripeta anche l’anno prossimo. Spero, soprattutto, che lo sforzo per cambiare l’arte e portarla a prendersi meno sul serio prosegua in tutti i modi possibili. L’artista nizzardo Ben Vautier, uno che non si è mai preso sul serio, scriveva che per cambiare l’arte si dovesse: passare inosservato, copiare, essere un fallito, non parlare più d’arte, diventare anonimo, suicidarsi. Magari non proprio così, ma tutti noi possiamo fare la nostra parte.
Nelle puntate precedenti
Nello scorso numero ho parlato della mia passione per il metaverso. Lo puoi leggere qui.
C’è un aggiornamento: all'Università di Torino hanno provato a fare lezione nel metaverso, ma l'aula era piena.
Questo numero termina qui, ce ne sarà un prossimo tra un numero indefinito di giorni.