Io odio il metaverso
Tra le cose al di là delle dimensioni vorrebbe esserci anche il “metaverso”. Ormai questa parola mi dà all’incirca la stessa sensazione di fastidio profondo e di nausea che provo quando sento la parola “resilienza”. Gli entusiasti del metaverso senza se e senza ma, di riflesso, mi fanno la stessa impressione di quelli che inseriscono nella propria bio sui social, o peggio si tatuano, la parola con la R più in voga di questo decennio.
Salvate questa mail, non soltanto perché è la prima di una newsletter che ha l’obiettivo di arrivare almeno alla quarta uscita, ma anche perché è il momento in cui metto per iscritto il fatto che non credo che il metaverso che vediamo oggi sarà davvero il futuro dell’internet (sì, lo scrivo con la preposizione articolata come un anziano) e potrete rinfacciarmelo tra dieci anni quando saremo tutti chiusi nelle nostre case con degli Oculus addosso.
I miei genitori, over 65 altamente scolarizzati, qualche sera fa a cena mi hanno chiesto cosa fosse quella pubblicità del metaverso che circola in televisione in maniera martellante da qualche settimana. Ho cercato di spiegare loro la storia dell’azienda Facebook: un conglomerato di prodotti con evidenti problemi di idee e di reputazione che per lanciare fumo negli occhi del pubblico e della borsa ha cambiato il suo nome in Meta. Mi hanno reiterato la domanda “Sì, ma cosa stanno vendendo?”, ho risposto “Un prodotto che non hanno ancora e che non funziona”. Mi hanno guardato straniti, è arrivato il secondo in tavola e non ne abbiamo più parlato. Non ho neanche avuto il tempo di spiegare che nel metaverso di Mark adesso ci sono anche le gambe, né che gli investitori di Meta stanno chiedendo in ginocchio all’azienda di spendere meno soldi in questo progetto, né di snocciolare più nel dettaglio la mia visione sul tema, ben riassunta da questo tweet:
Ma non sono soltanto gli anziani che non capiscono la tecnologia a destare il mio interesse: da professionista del marketing adoro vedere come ci sono aziende che si affannano a sperperare i loro budget marketing per diventare i primi a fare qualcosa nel metaverso.
Tipo il Consorzio del Prosciutto di San Daniele, che un paio di settimane fa è diventato il primo prosciutto nel metaverso. Il primo. Prosciutto. Nel metaverso.
O un’azienda torinese, che si vanta di essere la prima a fare colloqui per assumere persone nel metaverso. E giù di titoli della serie “Il futuro è iniziato”. Ma sarà vero? O basta fare un comunicato stampa in cui lo si dichiara per farlo diventare vero e guadagnare un po’ di attenzione dei media?
Ma non sono gli unici: se cerco “the first * in the metaverse” su Google ottengo circa 104.000.000 di risultati. Forse c’è un trucco per creare esperienze di realtà virtuale senza spendere troppo: inserendo la parola “Klapaucius”, seguita da una serie di punti e virgola e punti esclamativi, si ottenevano soldi infiniti su The Sims. Che voi sappiate, funziona anche nel metaverso? Io non lo so, so solo che là, tra i tanti “primi”, una non profit francese ha creato il primo senzatetto; quindi, forse, non è così semplice la faccenda.
A tutto ciò si uniscono pure gli sbirri: l’Interpol ha annunciato il suo ingresso nel metaverso e l’ha fatto mettendo in campo una fervida immaginazione. Nel video che hanno condiviso per celebrare la loro sublimazione al digitale ci mostrano, nell’ordine: file virtuali in coda al controllo dei passaporti, persone in una sala d’attesa che aspettano un aereo tridimensionale. Ecco, sì: quando penso al futuro immagino un mondo in cui possiamo fare la coda in realtà virtuale. (Sono ironico).
In questa epoca sempre più polarizzata, essendo io polarizzato contro questa fantomatica tecnologia di realtà virtuale mi crogiolo nel vedere altri che la pensano come me. Un paio di giorni fa, ad esempio, mi è spuntata fuori una sponsorizzata su Facebook da parte di un’azienda che mi invitava a visitare il suo headquarter nel metaverso. I commenti sotto sono interessanti, mi restituiscono uno spaccato della pancia del Paese e mi fanno sentire meno solo nella mia bolla di metascettici. I commenti oscillano dal “Ho fatto il pieno di videogiochi anni 90 a suo tempo, quando ne sentirò la nostalgia sarò pronto”, al complottista “Il metaverso non esiste” con tanto di risposta di un altro che dice “è un’invenzione da dissociati, un trip”, fino al finanziario “Adesso capisco perché le mie azioni Meta sono arrivate a 90$”. Ma la discussione entra nel vivo quando un altro commentatore, che chiameremo P., dice “vi siete bevuti il cervello con la parola metaverso, la usate completamente a sproposito senza sapere cosa sia, ditelo che è solo realtà virtuale”: è qui che l’azienda autrice del post sponsorizzato si sente punta nel vivo e decide di rispondere “sei veramente un guru, ti invitiamo a studiare prima di fare commenti sull’onda della superficialità. Approfondisci e poi scrivi”. Sbam!
No, P. non è un guru, ma su una cosa ha ragione: la corsa ad essere i primi nel metaverso è in realtà una corsa ad essere i primi a realizzare delle esperienze di realtà virtuale (al momento più vicine a The Sims che a qualcosa di eccitante) ed etichettarle come “metaverso”. Il metaverso può essere molto di più della semplice realtà virtuale fine a sé stessa. Può diventare uno spazio dalle infinite possibilità che racchiude in sé un’enormità di nuove opportunità, che hanno bisogno di svilupparsi prima come esigenze e come servizi reali, partendo dalla domanda “se posso fare la stessa cosa nella realtà, perché dovrei farla nel metaverso?” e solo dopo declinarle in VR o in AR o in altri modi che magari non conosciamo ancora oggi. Se continuiamo a far sovrapporre il concetto di metaverso a quello di realtà virtuale continueremo ad avere frustranti esperienze tridimensionali con grafiche discutibili che sembrano uscite dal 2005 e che non fanno altro che alimentare lo scetticismo dei brontoloni come me. Non credo che il metaverso sarà il futuro di internet, ma sarà parte del futuro di alcune esperienze che oggi sono mediate da altri sistemi. Non dobbiamo aspettarci che si sviluppi subito, Gartner ci dice che ci vorranno ancora più di dieci anni prima di poter dire di averci capito qualcosa per davvero, né che si sviluppi necessariamente nella direzione della realtà virtuale.
Neanche io ci ho capito molto del metaverso, quindi ieri ho provato a capirne qualcosa di più: sono stato ad un evento-tavola-rotonda-sul-metaverso (dedicherò un numero ad hoc della newsletter a questa speciale tipologia di eventi in futuro). C’erano un po’ di persone lì per dire la loro sull’argomento, ma nessuno è riuscito a dire nulla di interessante o anche solo di vagamente visionario. Segno evidente del fatto che anche chi ne parla di mestiere o quasi, in realtà, del metaverso ci ha capito poco.
Rettifico il titolo di questo numero (che, ora posso confessarlo, era un evidente clickbait): non odio il metaverso, odio la sua concezione attuale. Salviamolo da sé stesso (e da Mark). Servirà resilienza.
Per il primo numero può bastare così. Il prossimo uscirà prima o poi.